lunedì 3 novembre 2008

lo scafandro e la farfalla


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18 Febbraio 2008 di albertogallo

«Dopo qualche settimana in queste condizioni capii che oltre al mio occhio sinistro c’erano due cose che non erano paralizzate: la mia memoria e la mia immaginazione». È con questo spirito di entusiastica rassegnazione che Jean-Dominique Bauby, un tempo direttore della rivista di moda Elle (si tratta di una storia vera!), ora vegetale pensante in un letto d’ospedale, decide di affrontare ciò che resta della sua esistenza. E nonostante il pesante scafandro da palombaro che metaforicamente avvolge ogni parte del suo corpo impedendogli anche il più semplice dei movimenti (parlare, deglutire, scuotere la testa…), Jean-Do accetta - prima con riluttanza, poi con entusiasmo sempre crescente - di continuare a vivere. La salvezza arriva dalla sua grande intelligenza, dalla sua capacità di ridere sempre e comunque di se stesso e degli altri, dalla sua cultura laica, dalla passione che nonostante tutto continua a provare per gli aspetti più basilari e sensuali della vita (il cibo, le donne, i prodigi naturali della Madre Terra…): Lo scafandro e la farfalla è un disperato inno alla vita. Ma non l’angosciante vita fine a se stessa tanto cara ai cattolici più radicali. Al contrario, ciò che spinge Jean-Do ad andare avanti è il desiderio di una “vita piena di vita”, una vita vissuta per il suo intrinseco valore, e non per ciò che (forse: premi, punizioni, cori degli angeli…) verrà dopo: il suo sogno è poter mangiare frutti di mare con una bellissima donna, essere affascinante come Marlon Brando, planare come una farfalla su oceani e catene montuose. E se di religione proprio si deve parlare… be’, il pretesto è il ricordo di un viaggio a Lourdes di tanti anni prima, in compagnia di una vecchia fiamma al volante di un’enorme decapottabile blu.

Poi, inevitabilmente, tutto precipita nella più cupa realtà: le visite dei figli in ospedale, il senso di claustrofobia provocato dal sentirsi prigioniero in un corpo che non risponde più ad alcun comando, uno specchio che rivela la mostruosa, deforme e atrofica apparenza di un viso devastato dall’ictus.

Infine la rivelazione: Jean-Do decide di utilizzare l’unica parte del corpo che ancora può muovere - la palpebra dell’occhio sinistro - per scrivere un libro sulla sua esistenza passata e presente. Il metodo è semplice: una logopedista recita lentamente l’alfabeto e all’arrivo della lettera desiderata il malato non deve far altro che strizzare l’occhio. Il risultato di tale immane ma salvifico sforzo è appunto Lo scafandro e la farfalla, libro da cui è tratto il film di Julian Schnabel. Che è un capolavoro di tragica poesia visionaria: immagini di struggente gioia e bellezza (i viaggi sognati di Jean-Do e i ricordi del suo passato, commentati dalla voce fuori campo del suo lucido pensiero) si alternano ad altre di quasi insostenibile intensità (l’aspetto sfigurato del protagonista, la lunga soggettiva iniziale del risveglio dal coma). Ma per il patetismo di tempo non ce n’è: ogni singolo minuto di pellicola è pervaso da una forte carica di leggerezza e ironia - sfociante talvolta in un inevitabile cinismo - e da un’altrettanto intensa voglia di vivere nonostante le insormontabili difficoltà provocate dalla malattia.

Valori aggiunti: una breve ma intensissima interpretazione dell’ottantenne Max Von Sidow e una splendida colonna sonora che comprende, tra gli altri, pezzi di Tom Waits, Lou Reed e Joe Strummer.
Con questo film si chiude un’ideale trilogia dell’esaltazione laica e sensuale della vita (spezzata) inaugurata nel 2003 dalle Invasioni barbariche e proseguita l’anno seguente con Mare dentro. Tre capolavori

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